30 Aprile 2015: homepage a cura di Elena Camino, Silvano Folco
La perdita di suolo, e più in generale la distruzione dei sistemi naturali dai quali tutta l’umanità dipende, è in larga misura la conseguenza della realizzazione pratica di un ‘immaginario’, cioè di una visione del mondo che è nata e si è sviluppata in Occidente, basata sulla convinzione che l’uomo possa ‘dominare’ la natura, e su due idee – chiave: che sia possibile una crescita economica infinita (più case, più auto, più viaggi, più beni di consumo…) e che l’ingegno umano, grazie allo sviluppo della tecno-scienza e alla sua capacità innovativa, sia in grado di superare i vincoli che la natura pone.
Questo immaginario, imposto dai gruppi sociali dominanti fin dall’800, è stato alimentato dal prelievo sistematico di risorse da molti paesi del Sud del mondo, e dall’invio in direzione opposta di rifiuti e scarti. Fuori dall’Occidente sembrava esistere una fonte illimitata di risorse, e un pozzo senza fondo per i rifiuti, mentre il Nord moderno diventava sempre più tecnologicamente avanzato.
Ma il processo di globalizzazione ha reso più permeabili i confini, e ha trasformato le relazioni di potere. Nuove élites gestiscono i flussi di denaro, di risorse, di rifiuti non più tra il centro, il Nord ricco e le periferie del Sud povero, ma in una rete globale. Si sono creati ‘centri’ nei Paesi asiatici, e periferie ai confini di casa. Con la globalizzazione sono diventati più espliciti anche alcuni limiti planetari: limiti di varia natura che non possiamo superare, se non per tempi molto brevi. Oltrepassare quei limiti vuol dire innescare trasformazioni profonde del pianeta, e andare incontro a situazioni di incertezza e di ignoranza, situazioni cioè di cui non sappiamo quali saranno gli esiti.
Sono ormai evidenti i limiti ‘biofisici’ imposti dal pianeta: per esempio l’aumento della temperatura dell’atmosfera dovuto alla produzione di gas serra, che sta provocando dei cambiamenti imprevedibili del clima; l’eccesso di composti di azoto e fosforo immessi nell’agricoltura intensiva, che i sistemi naturali non riciclano con pari velocità; la perdita di biodiversità causata dalla deforestazione; ecc.
Dalle dimensioni locali allo sguardo globale. L’attuale modello di sviluppo è incompatibile con gli equilibri della biosfera (Steffen et al., Science 2015) e aumenta la nostra ignoranza sulle conseguenze delle nostre azioni.
Steffen e colleghi affermano (e documentano con numerosi dati sperimentali) che i livelli di perturbazione di origine antropica di quattro processi /caratteristiche del Sistema Terra (il cambiamento climatico, l’integrità della biosfera, i flussi biogeochimici, i cambiamenti dei suoli) hanno ormai superato le soglie oltre le quali il rischio di destabilizzazione del Pianeta diventa preoccupante. In altre parole, questo gruppo di studiosi (sono 18 a firmare l’articolo) sta dicendo che il modello di sviluppo tecnologico-industriale basato sull’uso di combustibili fossili e di fertilizzanti, sull’urbanizzazione e la progressiva distruzione degli ecosistemi, sta mettendo a rischio gli equilibri del nostro pianeta: quegli equilibri che hanno consentito all’umanità di trovare per milioni di anni un ambiente accogliente e adatto alle sue necessità.
L’anello verde individua i margini di azione per una umanità sostenibile
Alcuni studiosi hanno introdotto anche il concetto di limiti ‘sociali’: in un mondo con risorse limitate, qual è il nostro pianeta, lo squilibrio tra ricchi e poveri, tra chi ha e chi non ha risorse naturali, tra chi decide e chi subisce, sta innescando conflitti sempre più violenti e distruttivi (Raworth, 2012).
Riprendendo uno schema proposto da due Autori indiani, Gadgil e Guha, già nel 1995, “La maggior parte dei poveri del mondo deve grattare la terra e sperare nella pioggia per far crescere il proprio cibo, deve raccogliere legna o letame per cuocerlo, deve costruire da sé la propria capanna con bambù o steli di sorgo tenuti insieme dal fango, e deve cercare di tenere lontani gli insetti affumicandoli con il fumo della cucina”. Tutte le persone che dipendono dall’ambiente naturale della località in cui vivono per soddisfare le loro necessità materiali appartengono alla popolazione dell’ecosistema.
Via via che il mondo naturale arretra si restringono le capacità degli ecosistemi locali di sostenere queste persone. Dighe e miniere hanno letteralmente ‘spostato’ milioni di contadini e di tribali, altri hanno dovuto emigrare perché le loro foreste, e di conseguenza le loro sorgenti, erano svanite. Queste persone costituiscono la categoria dei rifugiati ambientali, che vivono ai margini di isole di prosperità, con ben poco rimasto a disposizione da raccogliere del mondo naturale, e non abbastanza denaro da poter comprare i beni che i negozi espongono.
Il resto della popolazione (circa il 20% alla fine del secolo scorso) è rappresentato dai veri beneficiari dello sviluppo economico, che potrebbe essere definito come la crescita dell’artificiale a scapito del naturale. Coloro che beneficiano di questa situazione hanno un potere di acquisto che consente loro di comprare automobili e di spostarsi in aereo, di indossare abiti di poliestere e di cibarsi di pesce, carne e frutta che provengono da ogni parte del mondo. Sono la gente della biosfera. Poiché divorano ogni cosa venga prodotta sulla faccia della Terra, possono essere chiamati onnivori.
Le percentuali si stanno drammaticamente modificando, aumentando i conflitti e le disparità e portando il pianeta sempre più vicino al collasso. Ricordando i due importanti appuntamenti internazionali del 2015, dedicati al suolo e al cibo, quanto suolo possiamo permetterci di cementificare, urbanizzare, destinare allo sviluppo industriale se vogliamo soddisfare l’esigenza primaria, il diritto di ciascuno, di avere cibo a sufficienza?
I limiti biofisici dello spazio...
Il tumultuoso sviluppo economico e industriale dell’India, questo immenso paese in cui abita un sesto della popolazione mondiale, ha favorito alcune centinaia di milioni di Indiani, ma sta portando alla disperazione gli altri sette- ottocento milioni. Il governo indiano, spesso in collaborazione con imprese nazionali e multinazionali, da alcuni decenni sta portando avanti una politica di sviluppo economico che ha un bisogno crescente di terra, di coste, di foreste per installare le attività produttive essenziali a trasformare l’India in un Paese ‘moderno’. C’è bisogno di energia: occorre quindi costruire centrali nucleari e grandi dighe. Ci vogliono impianti siderurgici, chimici, fabbriche, strade, mezzi di trasporto moderni per tirar fuori l’India dall’arretratezza e consentire agli abitanti delle città di godere dei vantaggi della vita moderna. Bisogna aprire nuove miniere per fornire le materie prime necessarie. Quindi occorrono spazi. Spazi che vengono sottratti all’agricoltura, alle coste, alle foreste, nei luoghi più fertili del Paese.
Contadini, pescatori, comunità indigene - la popolazione dell’ecosistema- vengono sempre più emarginati: spostati, allontanati, travolti per ‘fare spazio’ ai progetti di sviluppo industriale e tecnologico.
L’India – per diventare una potenza industriale seguendo il modello occidentale – deve colonizzare una parte di sé. Contadini, pescatori, raccoglitori che vivono nelle aree ancora ‘naturali’ dell’India devono farsi da parte, abbandonare i luoghi in cui vivevano da innumerevoli generazioni per fare spazio alla realizzazione della modernità indiana. Così, nelle comunità più periferiche dell’India rurale, arrivano i rappresentanti del governo che spiegano alla gente che non può più stare lì, che deve andarsene. Ma dove? Non ci sono aree coltivabili di scorta, non ci sono coste non abitate. La soluzione del governo è semplice: la chiamano ‘compensazione’, e prende la forma di un risarcimento in denaro – con cui queste comunità dovrebbero poter sopravvivere, una volta allontanati dalle loro abitazioni, senza più terra, senza più animali, senza più i frutti della natura.
CONFLITTI DI CONCORRENZA su spazi sempre più limitati
CONFLITTI DI DIVERGENZA sull’uso di tali spazi
... e i limiti sociali dell’equità
Contadini, pescatori, comunità indigene che hanno conservato da tempi immemorabili le risorse naturali da cui traevano il necessario per vivere – l’acqua pura, il suolo fertile, il mare pescoso – vengono dunque spazzati via dal ‘progresso’. Si tratta di un processo che si è avviato una trentina di anni fa, e ha coinvolto comunità sparse un po’ dappertutto nel Paese. La dispersione geografica, la localizzazione periferica, il potere dei promotori dello sviluppo (governo e multinazionali) hanno contribuito a tenere a lungo nascosta al pubblico – indiano e internazionale - queste situazioni di conflitto, che hanno assunto ormai dimensioni enormi, e vedono coinvolti centinaia di milioni di persone.
La crisi dell'agricoltura in India, che è tra le più sconvolgenti e distruttive, nasce dunque da una causa principale, la commercializzazione predatoria del Paese, un modello di sviluppo distruttivo che include enormi infrastrutture e grandi dighe (3.600 dighe sono state costruite dall’Indipendenza a oggi); che ha regalato ampi territori (grazie alle Special Economic Zones – SEZs) alle imprese multinazionali per realizzare impianti industriali e devastanti scavi di dighe (http://www.counterpunch.org/2014/01/31/land-conflict-and-injustice/).
Secondo il SIPRI (un Istituto internazionale di ricerca per la pace: www.sipri.org) l’India è il primo importatore mondiale di armi e di sistemi di difesa, per i quali ha speso nel 2013 5,6 miliardi di $. Queste armi non servono tanto per combattere nemici esterni, quando per reprimere le rivolte che da alcuni decenni infiammano una vasta area dell’India centrale, la ‘green belt’ ancora ricca di foreste, che è anche la ‘mineral belt’, ricca di giacimenti minerari: bauxite, rame, minerali ferrosi, minerali di uranio. Materie prime indispensabili per il boom industriale del Paese.
Negli ultimi trent’anni in quell’area si è aperto un vero e proprio conflitto armato tra gruppi di ribelli (i Maoisti, o Naxaliti) e lo Stato Indiano, il quale ha dispiegato sul campo diverse forze militari e creato, in maniera non ufficiale, le milizie Salwa Judrum per opporsi ai guerriglieri. Quando i media internazionali parlano dell’India, del suo PIL che cresce, della modernità che avanza, solo di rado accennano a questi conflitti, che pure hanno causato migliaia di morti e migliaia di rifugiati.
Ancora più silenziosi sono i mezzi di informazione rispetto ai movimenti di cittadini, agricoltori e comunità indigene che mettono in atto pratiche nonviolente (manifestazioni, boicottaggi, marce, digiuni: i sathyagraha di Gandhi) per esprimere il loro dissenso nei confronti di politiche socio - economiche imposte dall’alto, che sottraggono spazi vitali alle comunità rurali per portare vantaggi nelle mani di pochi. I leader di questi movimenti di protesta, e i membri delle comunità coinvolte, si sono spesso trovati a dover affrontare soprusi e minacce da parte di rappresentanti delle forze dell’ordine o delle compagnie multinazionali alle quali si oppongono.
Nonostante la scarsa attenzione dei media, cercando con cura tra i siti web è possibile raccogliere una gran varietà di testimonianze di queste lotte nonviolente. Nel loro insieme, si tratta di un coro numeroso e dolente di persone – da quelle che stanno ancora opponendosi agli espropri a quelle che sono già state trasformate in sfollati e rifugiati, e che il modello di sviluppo dominante liquida come ‘unhabitants’ (gente che non abita più in alcun luogo...).
Paradossalmente, queste sono le stesse comunità che per decenni o per secoli hanno conservato e protetto il suolo, le aree di pesca, le foreste da cui dipende in buona misura la sostenibilità della specie umana sulla Terra, come ci ricordano le dichiarazioni ufficiali che hanno accompagnato l’apertura dell’Anno Internazionale dei suoli, e come dichiarano gli organizzatori di EXPO 2015.
La cooperazione tra i popoli è fondamentale per raggiungere l’obiettivo di “Nutrire il Pianeta”, garantendo cibo sufficiente e sicurezza alimentare a tutto il mondo. Expo Milano 2015 sarà il luogo d’elezione per il confronto sui temi dell’agricoltura, dello sviluppo sostenibile, della lotta contro la fame per il benessere comune.
Le parole chiave di questo viaggio sono innovazione, risparmio energetico, rispetto dell’ambiente e delle risorse naturali. I protagonisti di questo dialogo a più voci saranno i Paesi, le Organizzazioni internazionali, la società civile e le aziende. http://www.expo2015.org/it/cos-e/il-tema
Our soils are in danger because of expanding cities, deforestation, unsustainable land use and management practices, pollution, overgrazing and climate change. The current rate of soil degradation threatens the capacity to meet the needs of future generations. The promotion of sustainable soil and land management is central to ensuring a productive food system, improved rural livelihoods and a healthy environment (http://www.fao.org/soils-2015/soil-facts/en/#c320163)
Eppure queste persone, milioni di persone, non sono presenti nella scena: sono fuori dalla vista, ‘out of sight’, come dice Rob Nixon nel suo libro ‘Slow violence’. Con questo termine – violenza lenta - l’Autore si riferisce alle molteplici forme di violenza che si manifestano (a differenza della guerra) in modo non spettacolare: la violenza lenta si manifesta in modo graduale e insidioso,e produce una distruzione ritardata, dispersa nel tempo e nello spazio, che non viene neppure riconosciuta come violenza. Secondo Nixon questa forma di violenza rimane oscurata, sullo sfondo, proprio perché non ha il carattere di esplosività e sensazionalità con cui di solito la immaginiamo. La violenza lenta invece è incrementale e accrescitiva, e rimescola in modi inaspettati le scale spaziali e temporali.
Contadini, pescatori, raccoglitori... ci parlano, attraverso le immagini e le scene raccolte da registi militanti, da emittenti TV, da Associazioni, talvolta dai cellulari di testimoni. Ci raccontano che la loro vita si svolgeva con serenità, coltivando i campi, o andando a pesca, o raccogliendo legna nelle foreste, finché...
Finché non è successo qualcosa di inaspettato e spesso incomprensibile.
Alcuni affermano che l’acqua del fiume ha cambiato colore, e berla fa stare male; altri dicono che i bambini hanno cominciato ad ammalarsi, di malattie prima sconosciute; altri ancora sostengono che la terra si è inaridita, le coltivazioni crescono stentate.
In alcuni casi sono trascorsi anni prima che potessero individuare le cause: gli scarichi tossici di una fabbrica a monte del fiume; le discariche di rifiuti radioattivi all’aperto; minerali ferrosi – invece del limo fertile – depositati nelle periodiche esondazioni sui terreni agricoli. Ora queste comunità sono impoverite, impaurite, protestano ma non trovano chi le ascolta, non sanno cosa fare... Subiscono il degrado causato dalle attività legate al ‘progresso.’
In altri casi è risultato subito chiaro che la solita vita - la vita dura ma autonoma dei contadini, dei pescatori, dei raccoglitori, una vita sostenuta dai sistemi naturali che ciclicamente fornivano di che vivere alle comunità - era minacciata direttamente dal ‘progresso’.
A land to call our own: http://www.videovolunteers.org/land-call/
Stop Forceful Land Acquisition in Belahari, Odisha: http://www.videovolunteers.org/stop-forceful-land-acquisition-in-belahari-odisha/
Video significativi sull’idea di sviluppo:
- https://www.youtube.com/watch?v=QhaZV5x8ong&feature=youtu.be
- https://www.youtube.com/watch?v=jQvI4Lmt9IU
I contenuti di questa pagina proseguono nella Seconda Parte, pubblicata il 02/07/2015.
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